PARLIAMONE CON...
Lia Fedele e Amedeo Minischetti incontrano Stefanos Antoniadis
STEFANOS ANTONIADIS ai microfoni di O.P.C.I.
Intervista a cura di Lia Fedele e Amedeo Minischetti
Laureato in Architettura all’Università IUAV di Venezia, è PhD in Architettura e Costruzione all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e Doutor em Urbanismo all’Universidade de Lisboa (DD PhD). Dal 2011 svolge attività di ricerca e didattica sul tema della forma del territorio contemporaneo e sulla trasformabilità del costruito esistente, in diversi atenei (UniPD, UniPV, UniTN). Dal 2017 è membro del laboratorio ReLOAD del Dip. di Ingegneria Civile, Edile e Ambientale dell’Università degli Studi di Padova ove è anche assegnista di ricerca, membro dello spin-off universitario IMPACT e professore a contratto in corsi di Composizione/Progettazione Architettonica e Urbana nonché in Master di II Livello in geografia (GIScience) e psicologia (Psicologia Architettonica e del Paesaggio).
Il libro inizia con un suo scatto nel Golfo di Gaeta (Fig.1), con lo sguardo dal mare verso la costa, ci racconti come nasce il suo interesse verso questo tema.
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S. A._ Sono di origine greca, un tutt’uno con il mare e con le coste; è una geografia che sento molto mia che fa parte di una formazione avuta ben prima dell’esperienza di studio e universitaria, precedente alla volontà di pubblicare ricerca. Questo libro nasce proprio sulla barca ritratta nel mio scatto del 2015, sulla quale navigavo con amici da Ischia a Gaeta. La torre di essicazione di cibi liofilizzati, in dismissione come un relitto territoriale, grande landmark che si staglia come pura forma sul territorio, ci era stata indicata dallo skipper come un imprescindibile punto utile alla navigazione costiera per mantenere la rotta. Da qui l’idea di proporre questa lettura degli oggetti artificiali, costieri, integrati o in opposizione con le forme della natura, superando il cosiddetto reportage del degrado. È molto facile ultimamente guardare a questi relitti lungo la costa e additarli come scempi, ecomostri, intesi come oggetti non apprezzati, che rovinano in qualche modo il paesaggio costiero che osserviamo.
Il libro, che è tesi del dottorato di ricerca, cerca dunque di rispondere a un problema reale e contemporaneo: digerire e considerare magari diversamente questo parco di edifici, generalmente dismessi e in qualche modo non accreditati, non reputati di valore, innescando così comportamenti virtuosi anche se contro-intuitivi.
L’accreditamento di questi oggetti potrebbe innescare tutta una serie di atteggiamenti di riciclo, di riuso, limitazione dello spreco, del rifiuto, degli sfridi da demolizione etc. Si tratterebbe di un’attitudine all’osservazione con risvolti concreti sulle nuove pratiche come la circular economy, la waste architecture, tutte le discipline che si occupano della gestione del territorio, del consumo di suolo e dei rifiuti, che potrebbero essere interessate sensibilmente da un aggiornamento del paradigma dal punto di vista della digeribilità e assorbimento di questi oggetti lungo il nostro paesaggio costiero.
Fig. 1_ Golfo di Gaeta, Stefanos Antoniadis, 2015
Si può dire quindi che il processo di accreditamento consista in un cambiamento di punto di vista?
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S. A._ Sicuramente. A tal proposito nel libro ho anche citato un interessante passaggio di una lettera che i Carolingi scrissero ai Bizantini per superare il rapporto superstizioso e soggettivo che la popolazione europea stava istituendo con le icone sacre. Il consiglio ricevuto fu di innalzare fisicamente le immagini sacre, poiché già l’atto di osservare da un altro punto di vista le icone aiuta l’auspicabile riverenza, stima e celebrazione verso l’oggetto dello sguardo.
È possibile translitterare questa dinamica nella disciplina architettonica o di osservazione del paesaggio e del territorio. Infatti, se noi provassimo a innalzare questi oggetti su un altro livello, forse potremmo accorgerci di un’altra caratteristica, intrinseca o estrinseca, tale da renderli apprezzabili. Il libro a volte è interpretato come una grande possibilità innovativa, ma alcuni dei contenuti illustrati sono in diretta continuità con dinamiche della cultura greco-classica. In fondo l’arte ha sempre anticipato i tempi. Si pensi ai contributi artistici che hanno cercato di celebrare alcuni brani: le opere di M. Sironi che negli anni Venti cominciava a dipingere la periferia (Fig. 2) o gli scatti coevi di E. Weston in America, che ritraevano cascine abbandonate e ciminiere (Fig. 3). Il meccanismo di accreditamento induce a cambiare punto di vista e si ripercuote anche sul procedimento pratico progettuale. Progetti che scostano anche di poco il punto di osservazione del paesaggio, con passeggiate, promenades architectural, oppure le inquadrature del paesaggio con dispositivi architettonici che ordinano l’osservazione dell’orizzonte, contribuiscono al processo descritto. Coadiuvati da forme artistiche, di composizione architettonica ma anche poetica, cinematografica, riusciamo ad inserire questi relitti costieri in un’altra cornice, conferendogli un valore inedito, inatteso, discutibile eventualmente. Aprire un dibattito sulle forme artificiali che costellano le nostre coste sarebbe già un grande punto di partenza per la costruzione di un paesaggio condiviso, trasmettibile, difendibile e in qualche modo progettabile.
Fig. 3_ Plaster Works (fotografia) Los Angeles, Edward Weston, 1925
Fig. 2_ Paesaggio urbano con camion (olio su tela), Mario Sironi (1929-1923)
Dalla sua citazione cogliamo l’occasione per riflettere su un aspetto compositivo del libro. Ogni capitolo èintrodotto da alcuni versi, italiani o stranieri, che sembrano anticipare i temi trattati proponendo una prospettiva
“altra” e sempre diversa, che presenta intuitività e immediatezza. Come mai questa scelta?
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S. A._ Spiego spesso per aneddoti, e a tal proposito ricordo la meravigliosa accoglienza avuta a Lisbona quando mi recai in regime di co-tutela di dottorato per questa tesi di ricerca. Carlos Dias Coelho, il mio advisor, che parlava di orientamento e di rotte per la mia ricerca, mi fece leggere altrettanti libri quante sono le citazioni che avete trovato nel libro. Erano libri che non avevano nulla a che fare con la costa, l’acqua o l’architettura, scritti da intellettuali, storici, studiosi e filosofi e racchiudevano conoscenze e saperi trasversali. Spesso in Italia ci costringono a ragionare per compartimenti stagni, per settori disciplinari; questa ricerca è invece il frutto di ragionamenti completamente trasversali, esito del fatto che ho rintracciato in ogni disciplina valide dinamiche. È lecito secondo me riconoscerle nell’arte, nella geografia o nell’iconografia o nella nautica, e trasporle a ragionamenti molto più specificatamente applicabili ad un caso studio o ad un tema. Carlos Dias Coelho diceva proprio che questo approccio è importante per la diversificação de investigação: la ricerca deve sempre tendere a diversificarsi, cogliendo molti rapporti differenziati. Inoltre, sono convinto che il sapere per essere disseminato debba in qualche modo assumere una forma diversa. Il filosofo Walter Benjamin (1892-1940) parla della necessità di scrivere senza dimenticare l’importanza della trasmissibilità; la ricerca non può essere consegnata solo agli addetti ai lavori. Non che il mio libro sia un romanzo, ma nelle pieghe di questa scrittura si ritrovano delle identità, delle geografie, delle esperienze passate. Sin dalla foto della barca si capisce che chi scrive ha vissuto i contenuti sotto forma di storie.
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Nella trattazione lei rileva un disallineamento tra le evoluzioni della forma del paesaggio e l’approccio metodologico e progettuale e propone la fotografia come “telescopio galileiano” e nuovo strumento di osservazione dell’architettura e del paesaggio. Quanto crede che si debba aspettare ancora perché essa sia ritenuta uno strumento valido?
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S. A._ Non sono in grado di dirvi di quanto tempo necessiti questa piccola, grande rivoluzione auspicata. La storia adesso scorre con tempistiche molto diverse, per via della tecnologia e di strategie di marketing.
Avremmo dispositivi validi per poter sperimentare aspetti innovativi, ma spesso non vengono utilizzati a tal fine. Un esempio banale sono gli smartphone, strumenti ad altissima efficienza tecnologica, anche ormai fotografica. Pensiamo al tema del selfie: potenzialmente potrebbe dare avvio ad interessanti introspezioni psicologiche, permettendo di registrare, giorno dopo giorno, la propria morfologia. Tuttavia, non sono questi i fini per i quali se ne fa uso al 99,9% dei casi.
Non conosco i tempi o le modalità, ma ciò che è interessante è rilevare questo disallineamento. Noi come architetti dovremmo osservare, misurare e commisurare il territorio per progettare di conseguenza delle soluzioni. Un tempo esistevano alcune dinamiche, quelle che Leon Battista Alberti chiamava lineamenta: linee intangibili e virtuali che tengono assieme tutte le parti e danno ordine alle cose, e un tempo era per lo più facile identificarle. Ad oggi questo telaio è difficilmente riconoscibile, poiché abbiamo a che fare con aerei che passano, ripetitori delle comunicazioni, containers, i fili dell’alta tensione, navi a volte più grandi delle città in cui viviamo, le infrastrutture…Probabilmente gli strumenti in dotazione all’architetto, che sono di base i disegni mongiani, sono ancora validi ma non totalmente sufficienti alla lettura e alla riscrittura del paesaggio contemporaneo quotidiano. Ogni altro strumento che invece può tenere insieme altre forme e layers del territorio, è ben accetto. Ne è esempio la fotografia, proprio per le sue caratteristiche di distanza focale, profondità di campo, messa a fuoco, per la capacità di ritrarre grandezze a-scalari, da cui può risultare una perfetta sincronia anche nella rappresentazione di elementi realmente distanti tra loro.
Forse così riusciamo a trovare nuovi lineamenta, coni visuali, omologie tra forme e oggetti, in grado di tenere insieme l’abaco sterminato e caotico degli elementi che concorrono a formare il paesaggio in cui viviamo. In questo riconosco l’utilità della ricerca presentata, e il disallineamento descritto induce a pensare che bisogna ibridare e integrare molto di più nuove tecniche di visualizzazione che sono la fotografia, la multivisione, i video, il cinema e quant’altro.
Fig. 4A_ Golfo di Kyparissía, Peloponneso occidentale,
ortofoto da GoogleEarth, 2013
Fig. 4C_ Margem Sul, riva sud del fiume Tago, ortofoto GoogleEarth, 2016
Fig. 4B_ Golfo di Gaeta, ortofoto da
GoogleEarth, 2016
Il libro è diviso in due parti: attraverso la prima, i lettori sono introdotti ad un “nuovo vocabolario”, mentre nella seconda lei descrive tre casi studio, “tre amabili frammenti”: il golfo di Kyparissia, il Golfo di Gaeta e Margem Sul.
Come sono stati scelti tra la vasta eterogeneità dei litorali costieri?
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S. A._ Il bacino mediterraneo ha l’ecumene orientale di ciò che era Bisanzio, la Grecia, ciò che era la città greca delle prime colonizzazioni, e quindi il golfo di Kyparissia. Poi l’Italia, che è sempre stata lo spartiacque tra le due ecumeni mediterranee, e l’altro estremo, Margem Sul, che è rientrato apparentemente di forza, perché non si affaccia sul Mediterraneo, ma i portoghesi sono convintissimi di essere mediterranei e non si sentono oceanici. Molti libri di geografi che ho letto, insistono nel dire che laddove cresce l’ulivo è Mediterraneo, ed è forse anche per questo che rivendicano quest’appartenenza. In fondo, forse in pochi lo sanno, Lisbona è la città di Ulisse, etimologicamente parlando; si narra infatti che Ulisse fondò
la prima conurbazione, che infatti era Olissi polis, in seguito è diventata Olissipona, e poi Lisboa, Lisbona. Ciò richiama l’idea di un grande viaggio, che è quello dell’Odissea, e questi tre casi studio vengono sicuramente da un viaggio, fisico e metafisico.
In maniera più scientifica, questi tre luoghi sono stati scelti perché morfologicamente somigliano molto. (ortofoto) Sono tre golfi più o meno della stessa ampiezza. Guardando i primi due, il golfo di Kyparissia e di Gaeta, ci accorgiamo che sono praticamente quasi coincidenti; nel caso di Margem Sul si tratta di un estuario che, proprio in quanto tale, è molto più simile ai golfi mediterranei che all’apertura oceanica delle altre coste atlantiche e portoghesi. È molto interessante il rimando omologico tra le forme del Mediterraneo. In merito a ciò, qualche tempo dopo che io scrissi il libro della tesi, Francesco Venezia durante una lecture a Padova, parlava di quanto bello e facile fosse per i Greci colonizzare il Mediterraneo, perché non si spostavano di molto e, attraversando un piccolo specchio d’acqua, si ritrovavano in una condizione paesaggistica territoriale.
Davanti ai fenomeni di abusivismo, nel libro si avanza la tesi del fallimento, in molti casi, del “ritorno al punto zero”, quali considerazioni si possono fare sull’impatto ambientale di simili decisioni?
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S. A._ È una domanda molto delicata. È chiaro che gli impatti molto spesso sono significativi e negativi. Ad esempio, per quanto riguarda il golfo di Kyparissia, sappiamo che esiste un’autentica favela lineare di 20-30 km lungo la costa, e se da un lato è un paradiso terrestre, senza traffico o sfruttamento, che prevede un’economia di sussistenza locale, con consumi a km 0, dall’altra parte ci sono questioni come il recupero e il trattamento dei rifiuti, la falda acquifera, la costruzione fuori controllo. Dagli anni Cinquanta, molte case sono state costruite troppo vicino alla spiaggia e distrutte dalle mareggiate, determinando grandi problemi ambientali. A Gaeta è ben nota la vicenda in Italia degli abusi delle varie famiglie che, colluse anche dalla criminalità hanno operato sulla costa.
È utile segnalare un profilo del libro, che non è di risolvere problemi ambientali, ma tentare di aggiornare gli strumenti per guardare al contemporaneo. Certo è assolutamente auspicabile intersecare i segmenti di ricerca con altri settori disciplinari. Ad esempio, qui a Padova nel dipartimento di Ingegneria Civile Edile e Ambientale (ICEA), da qualche anno istituiamo seminari, workshop, convegni internazionali, in cui architetti, ingegneri ambientali, propongono strategie per questi problemi. Ognuno offre la propria visione.
Molti di questi edifici possono rappresentare un’opportunità e dunque potrebbero essere tutelati e regolamentati, sostenendo l’integrazione di diversi percorsi di ricerca. Il libro non presenta un’analisi molto accurata di problemi ambientali ma vuole essere dichiaratamente un “portolano” che descrive le nuove forme contemporanee costiere.
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Sulla linea di questi ragionamenti, citiamo il pensiero di Jorge Figueira, riportato nel libro, che recita: “È questo un momento terribile: quando gli edifici finiscono di essere una casa o una chiesa, e diventano una post-architettura, monumento, tempo archetipico del tempo che è cambiato”. Con una maggiore comprensione di forme attualmente non accreditate, si potrebbe invece interpretare questo momento come un passaggio fertile per la ricerca, se pur critico?
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S. A._ Certo. Comunemente questo passaggio è visto come un momento terribile, perché ormai nella nostra società la funzione tende ad essere il paradigma assoluto per misurare la qualità di un prodotto. Non è sempre così, perché il Partenone non funziona da duemila anni, eppure crea PIL e movimento. Il mondo gira intorno al patrimonio culturale ed architettonico, alle meraviglie del mondo, superando il limite di una visione strettamente funzionalistica.
Occorre fuggire dalla fobia della mancata funzione e capire invece che magari l’edificio si sublima a forma pura. Se un’architettura cessa di funzionare e intercetta delle particolari caratteristiche che ne permettono l’accettazione e l’accreditamento, essa non diventa un rifiuto ma una rovina.
La rovina non è mai obsolescenza ma ricchezza del territorio, rappresentando una seconda vita più longeva e fruttuosa per l’edificio. La mancata fruizione di alcune rovine aprirebbe un’altra discussione, ma questi ragionamenti possono innescare una politica molto proficua. Ed in fondo questo è un approccio che si può ritenere valido non solo sulle coste ma su più livelli. Le stesse parole che si usano, ri-funzionalizzazione, il prefisso ex -, ruotano attorno al discorso della funzione e della perdita della stessa, eppure noi non guardiamo al Partenone come ad un “ex tempio”. Conservando nel nome la precedente funzione, si tende ad immagazzinare negli oggetti e nelle architetture una resistenza al cambiamento. Al contrario, allenare gli occhi e l’intelletto a nominare le cose a partire dalla loro forma, anziché dalla loro funzione, cominciare a guardare gli oggetti per ciò che sono, determinerebbe un primo grande passaggio di paradigma.
Fig. 5_ Ex - Stabilimento per la produzione di olio di fegato di bacalà, Ginjal,
Stefanos Antoniadis , 2016
Fig. 6_ Partenone, Atene, 447 a.C., Stefanos Antoniadis, 2010