PARLIAMONE CON...
Lia Fedele e Amedeo Minischetti incontrano Beatrice Moretti
BEATRICE MORETTI ai microfoni di O.P.C.I.
Intervista a cura di Lia Fedele e Amedeo Minischetti
BEATRICE MORETTI è Architetto e Ph.D, docente a contratto presso il Dipartimento Architettura e Design - dAD della Scuola Politecnica di Genova. È stata ricercatrice presso il Comune di Genova Urban Lab e l'Autorità Portuale di Genova. Dal 2015 è assistente alla didattica all’interno del Coastal Design Lab, laboratorio di architettura e progetto urbano del dAD coordinato dalla Prof.ssa Arch. C. Andriani.
È autrice delle monografie Un colle, un transatlantico, un nome. Tre storie sul porto di Genova (Sagep, 2018) e Beyond the Port City (JOVIS, 2020). Dal 2020 è assistente alla didattica presso il DAStU del Politecnico di Milano e docente per il dAD all'interno del Seminario Internazionale di Progettazione Architettonica Villard.
“Beyond the Port City. The condition of Portuality and the Threshold concept”, novità editoriale di agosto 2020, esito della ricerca di dottorato di Beatrice Moretti. Il volume è interamente scritto in inglese, e la casa editrice è JOVIS, che edita libri di architettura, urbanistica, fotografia, arte, ma è tedesca: come mai questa scelta?
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B. M._ La scelta di una casa editrice non italiana asseconda l’obiettivo di pubblicare gli esiti della ricerca di dottorato, conclusa nel maggio 2019 a Genova nel Dipartimento di Architettura e Design, in lingua inglese. Da qui la scelta di pubblicare la ricerca su una piattaforma europea. Le ragioni sono dunque sia pratiche che sostanziali. Conoscevo già JOVIS tramite un’esperienza fatta qualche anno prima nella scuola di Hannover durante il dottorato e ho apprezzato molto non solo l’eterogeneità dei contenuti trattati dalla casa editrice ma anche la flessibilità consentita nelle scelte grafiche.
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Come è nato l'interesse verso il rapporto tra la città e il porto, che continua ad essere oggetto della sua ricerca?
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B. M._ Prima di fare il dottorato, appena laureata ho lavorato tre anni al Comune di Genova nel settore Urban Lab, fondato anche da Renzo Piano e passato sotto la guida del curatore londinese Richard Burdett, lavorando alla redazione del piano urbanistico del 2015. Subito dopo sono stati determinanti i tre anni di borsa di studio all’Autorità portuale di Genova, in cui ho partecipato al laboratorio temporaneo, ad oggi permanente, che si occupa del piano regolatore portuale. Con due esperienze di cui una nella città e l’altra nel porto è nata spontaneamente la necessità di indagare che cosa succede lungo questo confine funzionale, istituzionale, politico e morfologico.
L’interesse verso la città costiera e portuale è a dire il vero ancora precedente: durante gli ultimi anni della carriera universitaria ho fatto parte, con altri colleghi, di una ricerca che si chiamava Lungo il mare, patrocinata dalla Regione Liguria, con la partecipazione di Comuni tra Genova e Savona, consorziati per lavorare sulla linea di costa. In questo contesto è nata anche la mia tesi di laurea, con ragionamenti legati agli assi infrastrutturali e il paesaggio della costa. Genova è il punto di osservazione principale, sia fisicamente che come esperienza.
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Che ruolo ha l’attività di ricerca, in particolare a riguardo di questo tema, nell’esercizio della professione presso lo studio di architettura Caarpa, di cui lei è socia fondatrice?
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B. M._ Caarpa è un collettivo di architettura e paesaggio nato da un gruppo di amici: il paesaggio configura una chiave identitaria dello studio, e ha aperto strade inedite. Lo studio si occupa di piccoli e grandi progetti di ristrutturazione. Importante risultato è stato il concorso vinto nel 2018 per il Parco e il Giardino Segreto della Reggia di Rivalta (RE), un grande progetto di paesaggio elaborato insieme allo studio OPENFABRIC italo-olandese di Francesco Garofalo e F&M Ingegneria Spa.
Io ho devoluto molta energia alla ricerca universitaria e personalmente credo che l’aspetto di ricerca debba essere sempre alla base del progetto e va assolutamente potenziato.
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Nel titolo del libro sono presenti tre parole chiave della sua ricerca: beyond – oltre, portuality – portualità, e threshold- soglia: che cosa significa che la portualità è una condizione? Quali sono gli aspetti che contraddistinguono una soglia da un confine?
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B. M._ È importante sapere durante il percorso di dottorato quale sia la “tesi della tesi”, cosa si vuole dimostrare. Nel mio caso è che la città portuale sviluppa una condizione simbolica e fisica inedita, chiamata portualità. Di solito quando si affronta uno studio sulla città portuale, la prevalenza dei contenuti bibliografici riguarda i progetti di waterfront, di riconversione delle aree portuali dismesse, che si originano in Europa soprattutto nella seconda metà del Novecento, a seguito di grandi espansioni.
Il mio percorso di studi si discosta da questa tendenza e interpreta alcune linee di ricerca prevalentemente nella geografia marittima e sociologia urbana, secondo cui le città portuali sono categorie urbane distinte con regole insediative differenti dalle città generiche. Esse generano la condizione della portualità, che può essere riconosciuta nella soglia. L’idea di soglia introduce l’idea di movimento, di apertura. È un tema estremamente ricco di significati, e nel mio caso si tratta di una soglia territoriale che riesce ad attribuire dinamismo all’idea di confine. Tra città e porto spesso il confine è atto, fisicamente, di diverse infrastrutture (Fig. 1). La soglia così intesa (Fig. 2) crea una “tensione” ed è il campo di esplorazione della portualità, privilegiato ed emblematico in una tesi come quella sviluppata, comparativa nelle sue fasi preliminari, poiché rappresenta un paesaggio ricorrente in alcune città portuali con determinati requisiti specifici.
Fig. 2_ Tratta da Metafore: Disegno di una porta per entrare nell’ombra, Ettore Sottsass, 1973
Fig. 1_ Tratta da Beyond the Port City. The conditions of Portuality and the Threshold Concept, Beatrice Moretti, 2020
Quale valore aggiunto sono in grado di fornire le strategie progettuali adottate per le soglie urbane portuali, dal punto di vista ambientale, ai paesaggi costieri?
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B. M._ Mi sono imposta di raccontare progetti contemporanei e ho illustrato strategie diversissime, concentrate sulla soglia, concepita come scheletro del progetto e non area residuale. È sempre molto critico rispondere alle domande sull’aspetto ambientale, ma un elemento caratteristico si potrebbe rintracciare sull’utilizzo dell’acqua. Per esempio, il progetto dei COBE Architects per il concorso a Nordhavn nel Porto di Copenaghen, (2008 - in corso) si basa sull’idea di realizzare canali per far convivere il porto e la città in un arcipelago di isole, quartieri, spazi pubblici, utilizzando l’acqua come infrastruttura navigabile a piccola velocità.
L’idea torna anche a Genova nel progetto del waterfront di Levante, uno dei progetti che Renzo Piano dona alla sua città, che crea un canale proprio al bordo della città antica, ricostituendo il profilo delle antiche mura. Il canale ha anche funzioni ambientali come il ricircolo delle acque e l’avvicinamento di specchi acquei alla città. Inoltre, queste opere definiscono un cambiamento radicale nel modo di vivere la città, che a realizzazione ultimata, dovrebbe garantire la continuità della mobilità lenta tra Levante e Ponente della città, su un’unica linea.
Sicuramente tra le città del Nord uno degli esempi più virtuosi in termini ambientali, è Rotterdam. Il progetto City Ports/Stadshavens, in particolare M4H (2015 - in corso), ex porto della frutta e verdura olandese, analizzato nella tesi, presenta una grande attenzione al tema del riciclo, con l’utilizzo di nuove tecnologie all’avanguardia nel settore farmaceutico, legato agli alimenti, non ancora note in Italia. In questi paesi si ha la percezione di come i percorsi produttivi a basso impatto ambientale, possano essere molto remunerativi, unendo l’aspetto economico ed etico.
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Quando parliamo di interventi progettuali su aree portuali abbiamo spesso a che fare con operazioni vaste e di lunga durata: in che modo questi progetti riescono a rispondere alle esigenze adattive attuali, legate alle trasformazioni che stiamo vivendo soprattutto a causa dei cambiamenti climatici?
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B. M._ Le trasformazioni portuali sono investimenti di lunghissima durata perché consistono in trasformazioni di grandi infrastrutture, e per questo, a differenza dei piani urbanistici comunali, un piano regolatore portuale in Italia non ha scadenza.
Una delle strategie centrali, intercettata nuovamente a Rotterdam, è l’idea della pianificazione non solo per fasi, ma che consideri possibile la pianificazione incompleta, che lascia margini di trasformazione alla luce di tendenze economiche, del mercato, che arrivano all’improvviso o anche altri processi già innescati che producono risultati inattesi. La stessa idea era presente già tra i caratteri centrali per la trasformazione della città e dell’urbanistica, illustrati da Stan Allen in Infrastructural urbanism (1999).
I porti, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, sono spazi più flessibili e dinamici di molte città. Ne sono un esempio le grandi trasformazioni successive all’introduzione dei container negli anni Cinquanta negli Stati Uniti, che i sociologi urbani descrivono come il primo e radicale fenomeno di globalizzazione.
Il piano regolatore portuale di Genova del 2000 aveva organizzato il Porto di Sampierdarena attraverso una struttura a pettine, permettendo di disporre due imbarcazioni sulle calate ed una sulla testata. Con la diffusione di navi molto più grandi si è resa necessaria la trasformazione della conformazione descritta, attuabile anche perché lo stesso piano portuale prevedeva la possibilità che negli anni successivi le banchine venissero tombate ottenendo una banchina più grande.
Alcuni momenti dell'intervista
L’Osservatorio dei Paesaggi Costieri Italiani ha patrocinato la sesta edizione di quest’anno di Zones Portuaires a Genova.
Secondo lei, qual è il contributo che il Festival riesce a dare allo sviluppo dei temi di cui stiamo discutendo oggi?
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B. M._ Il Festival nasce nell’ambito di arte, cultura e spettacolo ma quest’anno hanno trovato spazio riflessioni più legate alla ricerca in campo urbano portuale ed è un aspetto molto interessante perché ha sostenuto l’idea di porto come macchina attiva, infrastruttura dinamica ed economica per la città.
Zones Portuaires ha rappresentato così un centrale strumento divulgatore, rivolto a figure tecniche e cittadini. Nonostante in molte città portuali sia il settore economico e lavorativo principale, il porto non è solo un posto di lavoro, ma anche un elemento culturale, di collettività, e in certi casi un vero e proprio spazio pubblico, come è emerso durante i talk del Festival, a cui anche io ho partecipato.
Anche all’interno della didattica qui a Genova cerchiamo di portare avanti queste idee ed altre legate al patrimonio, all’architettura, alla dismissione di edifici portuali, con il laboratorio Coastal Design Lab, fondato sette anni fa, diretto dalla prof.ssa Carmen Andriani, a cui partecipano i ragazzi dell’ultimo anno della magistrale di Architettura.
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È dunque possibile, dopo le numerose trasformazioni che hanno avuto luogo negli anni, concepire questo spazio, la soglia portuale, come “edificio – spazio pubblico” così come Vitruvio descriveva i porti come edifici pubblici?
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B. M._ Quella di Vitruvio era un’intuizione geniale, ma ovviamente si parla di epoche molto lontane in cui il porto era un emporio e le piazze coincidevano con i mercati, c’era una totale condivisione, coesione, sovrapposizione di intenti e di spazi. Oggi il porto ha invece bisogno di autonomia, infrastrutture dedicate, tecnologie legate alla logistica, alla produzione e al movimento delle merci, alla velocità con cui si spostano le merci. Adesso non è possibile pensare al porto come “edificio pubblico” bensì come un patrimonio - paesaggio pubblico, che appartiene alla collettività e che deve essere progettato.
Essendo un nostro patrimonio non è solo un’infrastruttura tecnica che assolve una serie di protocolli, ci sono spazi meno pesanti che possono essere oggetto senza dubbio del progetto urbano. Sono d’accordo con l’accennata teoria del prof. Rosario Pavia che in uno dei suoi testi parlava del fatto che per la soglia, che lui chiamava in un altro modo, serva uno strumento urbanistico specifico, dichiaratamente dedicato al confine, probabilmente condotto e partecipato da diversi enti. A questo punto si entra nell’ambito del governo del porto, aspetto critico ma determinante: è necessario fare del porto un affare urbano, da un punto di vista gestionale.
I porti dei paesi del Nord sono quasi tutti delle corporations: società partecipate da enti pubblici. Il porto di Rotterdam è una SPA, gestito come una società privata da due stakeholders pubblici. Se il porto si considera un affare urbano, come lo è la stazione o un’altra infrastruttura, il cambiamento è decisivo, poiché in questo modo è in grado di rendere un profitto anche allo Stato. Il porto non è una macchina nociva da spostare colonizzando tratti di costa naturali, ma una realtà che non può essere eliminata per il tipo di città che abbiamo di fronte. È possibile che con il nuovo scenario, legato al decreto del 2016, che clusterizza i porti, ci si possa muovere in questa direzione: l’ottimizzazione, e dunque laddove non è necessario costruire delle infrastrutture, forse non si dovrebbe fare.